La Campagna in Africa Orientale

Parte Iª

In considerazione dello stato di ribellione che continuava a mantenersi un pò su tutte le regioni del territorio etiopico, dopo la conclusione delle operazioni di conquista (1935/36) gli italiani erano stati costretti a mantenere in armi forze molto superiori a quelle previste. Nel 1937, vi erano, infatti, 255.000 uomini (135.000 nazionali e 120.000 coloniali) anziché 100.000 (50.000 nazionali e 50.000 coloniali) come stabilito. Nel maggio 1940, alla vigilia della partecipazione italiana al conflitto, vi erano 285.000 uomini, di cui 85.000 nazionali e 200.000 coloniali.

Fin dal primo momento era stato stabilito, che in caso di guerra l'Impero avrebbe dovuto provvedere autonomamente alla propria difesa. Il governatore generale era allora il maresciallo Graziani. Il 1º dicembre 1937 Graziani chiese, l'assegnazione delle armi che egli riteneva indispensabili alla difesa: 3 brigate corazzate, 24 batterie controcarro, 3 gruppi di artiglieria contraerea, 6 battaglioni carri armati e autoblindo, 5 autogruppi. Gli fu risposto di pensare all'ordine interno; alla difesa esterna si sarebbe provveduto successivamente.

Nel maggio 1939 il duca d'Aosta divenuto viceré d'Etiopia, presentò un piano delle misure da prendere per raggiungere l'autosufficienza. Il costo era di 4,8 miliardi che furono rifiutati, il duca ritornò sull'argomento con un piano ridotto a un pò meno di un miliardo e mezzo; ne furono concessi 900 che in realtà non saranno assegnati fino all'aprile 1940. Nel febbraio il viceré riunì i governatori generali delle varie regioni per un approfondito esame della situazione in vista del pericolo di guerra e misero in evidenza l'inconsistenza delle forze disponibili per la difesa alle frontiere, una volta provveduto alla repressione della guerriglia interna. Roma si rese conto, della precarietà della situazione e il 6 aprile l'invio di un blocco considerevole di materiale e di personale ma soltanto 24 carri medi, 24 carri leggeri, pochi pezzi di artiglieria e 300 tra ufficiali e specialisti giunsero a destinazione mentre tutto il resto rimase bloccato nel porto di Napoli dall'inizio dello stato di guerra.

L'autosufficienza, avrebbe dovuto essere garantita dall'ammasso di scorte adeguate, sufficienti a vivere e combattere per un anno. Il 10 giugno 1940 la situazione era ben lontana da questo livello. Le deficienze maggiori riguardavano la motorizzazione, sia per il limitato numero degli autocarri sia, soprattutto per la crisi nella disponibilità di gomme, corrispondenti appena al fabbisogno di un paio di mesi. Le scorte di carburante erano valutate sufficienti a 6/7 mesi di esercizio salvo naturalmente eventuali distruzioni da parte del nemico. Minori preoccupazioni destava il settore del vestiario e del vettovagliamento. Le munizioni di artiglieria erano accantonate nel quantitativo previsto, quelle per le armi portatili raggiungevano appena la metà del livello prestabilito. Mancavano totalmente le armi contraeree e controcarro. Le poche mitragliere da 20 disponibili (24 in tutto) erano prive di congegno di puntamento per il tiro contraereo e prive di munizionamento speciale controcarro: soltanto nella primavera del 1941 furono inviati 4.000 colpi, per aereo. L'organizzazione delle forze terrestri era stata adattata fondamentalmente alle esigenze della sicurezza interna. Esistevano soltanto due divisioni di fanteria, di tipo più o meno corrispondenti a quelle della madrepatria. Le operazioni di polizia richiedevano in prevalenza la disponibilità di unità leggere di entità elasticamente variabile in relazione ad obiettivi di volta in volta differenti. Perciò la base dell'organizzazione erano il battaglione e la brigata, composta di un numero vario di battaglioni, tanto per le truppe nazionali quanto per quelle coloniali. Era prevista la riunione occasionale di due o più brigate con congrui rinforzi di artiglieria e di elementi delle altre armi in divisioni di formazione opportunamente dosate in relazione alla natura e alle caratteristiche della particolare operazione da compiere. L'arma corazzata era rappresentata da 24 carri medi da 11 tonnellate 35 carri leggeri da 5 tonnellate e 126 vecchie autoblindo. Tutto l'armamento, dal fucile alla mitragliatrice all'artiglieria era costituito da residuati della prima guerra mondiale.

Con le forze regolari collaboravano poi bande irregolari che portavano un prezioso apporto nell'azione di controllo e di repressione della ribellione ma si dimostrarono estremamente infide con il procedere degli eventi fino a passare al nemico nell'ultima parte della campagna. Sola eccezione costituirono gli eritrei che dimostrarono con un generoso contributo di eroismo e di sangue la loro fedeltà all'Italia. Alla vigilia della dichiarazione di guerra tutto il potere, civile e militare, fu accentrato nelle mani del viceré che aveva alla sua diretta dipendenza, i comandanti dei tre scacchieri: nord (generale Frusci), sud (generale Gazzera), est (generale Nasi) e del settore autonomo del Giuba (generale Pesenti. L'aviazione disponeva teoricamente di 325 aeroplani ma in realtà soltanto 183 risultavano disponibili per la linea di volo, con 61 apparecchi di riserva in magazzino e 81 in riparazione. Si trattava di modelli assolutamente superati, destinati a soccombere, nonostante l'impegno dei piloti, nell'incontro con quelli della RAF. Allo scoppio della guerra il comando generale di Addis Abeba ricevette da Roma la seguente direttiva: tutelare all'interno e difendere all'esterno l'integrità del territorio dell'impero. Su questa base chiaramente difensiva era però prevista la preparazione di eventuali operazioni offensive a obiettivo limitato, da realizzare soltanto dietro ordine esplicito di Roma, allo scopo di migliorare la sicurezza della frontiera, nel Sudan, a Gibuti e nella Somalia britannica.

Durante il periodo della non belligeranza erano stati compiuti lavori difensivi di modesta entità in corrispondenza dei tratti più vulnerabili della frontiera e, nell'interno, a protezione di posizioni particolarmente delicate e vitali. Lo schieramento era stato effettuato in base al giusto criterio di mantenere in potenza la maggiore possibile massa di manovra, a disposizione dei comandanti di scacchiere e per la riserva generale, nelle mani del viceré. Perciò si era provveduto ad una sottile copertura delle frontiere mentre per la sicurezza all'interno dopo aver destinato un minimo di forze alla funzione di presidio statico locale si faceva assegnamento preminente sull'impiego di colonne mobili.

Lo sviluppo della situazione generale dopo il 10 giugno fino alla conclusione dell'armistizio con la Francia, portò a cancellare dalla lista delle possibili operazioni offensive per la rettifica delle zone di confine quelle dirette contro Gibuti. Gli italiani procedettero allora, in primo luogo, all'occupazione di Cassala nel Sudan sudorientale, per assicurarsi il possesso di quell'importante nodo di comunicazioni di primaria importanza nei riguardi di eventuali progetti d'invasione dell'Eritrea. L'obiettivo fu raggiunto il 4 luglio con perdite insignificanti dalle due parti. Rettifiche minori di importanza strettamente locale furono compiute in corrispondenza della frontiera del Kenya. Soltanto successivamente si pensò ad organizzare l'operazione, per l'occupazione della Somalia Britannica che doveva avere inizio a primi dell'agosto 1940.

L'Etiopia aveva un territorio che con i suoi 1.250.000 chilometri quadrati di superficie era il più inaccessibile di tutta l'Africa e teoricamente si trattava di un paese facile da difendere contro l'invasore ma la quasi impossibilità di movimento, tranne che sulle pochissime strade principali e la quasi totale mancanza di mezzi di comunicazione combinate con le enormi distanze imponevano severe restrizioni non solo all'esercito invasore ma anche ai difensori.

A nord dell'Etiopia si trovava la colonia italiana dell'Eritrea, 120.000 chilometri quadrati di montagne e di desolata terra desertica. Ad est e sud est vi era la Somalia in parte italiana in parte inglese ed in parte francese che comprendeva 800.000 chilometri quadrati quasi completamente privi di risorse. Alla natura del terreno si deve aggiungere l'impreparazione che da entrambe le parti, c'era su questo teatro di guerra. La Gran Bretagna quando l'Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940, non aveva in Africa Orientale forze capaci di sostenere una campagna. Le formazioni che era stato possibile mettere insieme o reclutare sul posto potevano consentire soltanto all'inizio di pensare alla possibilità di difendere il Kenya la Somalia britannica e il Sudan contro un'invasione italiana e anche questo limitatamente al caso che tale invasione fosse alquanto blanda.

Sulla carta gli italiani avevano una soverchiante superiorità numerica ma questa situazione era parzialmente modificata da diversi seri handicap. Le forze britanniche aumentarono sensibilmente nelle varie fasi della campagna. Gli italiani non ricevettero alcun rinforzo, ma comunque le loro forze all'inizio della campagna erano rilevanti. In base agli stessi dati italiani comprendevano: truppe nazionali 91.203 truppe indigene 199.273 totale 290.476 uomini, gli italiani poi, erano tagliati fuori dalla madrepatria senza alcuna possibilità di ricevere rinforzi o complementi di qualsiasi specie e l'Etiopia non aveva né l'economia né le risorse per soddisfare le esigenze di una campagna prolungata.

I britannici, il cui servizio informazioni era inadeguato e trascurato non sapevano quanto poco valessero effettivamente le forze italiane. Si doveva tenere conto perciò della possibilità d'una invasione di territori in mano inglese. Gli italiani invasero la Somalia britannica ma nel Sudan limitarono la loro attività alla presa di Cassala, un centro importante a 20 km circa dalla frontiera Eritrea e nel Kenya all'occupazione di Moyale una piccola città di confine. Nei due casi lo scopo era soltanto di privare i britannici di due basi potenziali, di due possibili vie d'accesso all'Africa Orientale italiana.

Invasione o no, la presenza dell'Italia nell'Africa Orientale era un grave problema. Il Corno d'Africa dominava l'ingresso del Mar Rosso la linea vitale per il Medio Oriente dopo la chiusura del Mediterraneo. Gli aerei italiani con base a terra rappresentavano una minaccia per le navi britanniche che rifornivano il Medio Oriente e a Massaua esisteva anche una base navale. Per di più a causa della presenza italiana il Mar Rosso era ufficialmente zona di guerra il che significava che le navi americane non potevano entrarvi. Ciò aggravava ulteriormente il problema dei rifornimenti. Un'altra seria considerazione sorgeva dalla convinzione che gli italiani stessero organizzando rapidamente le forze indigene reclutate in Etiopia e fintanto che l'Africa Orientale italiana rappresentava una potenziale minaccia, le truppe anche se necessarie altrove, dovevano essere dirottate nel Kenya e nel Sudan per l'eventualità di un'avanzata italiana in una di quelle regioni.

La campagna dell'Africa Orientale ebbe inizio con l'invasione italiana della Somalia britannica. Il duca d'Aosta principe di casa Savoia e viceré d'Etiopia aveva ricevuto ordine da Mussolini di mantenere atteggiamento difensivo. Ma il viceré temeva che la Somalia francese con il suo importante porto di Gibuti potesse rappresentare una comoda base per l'invasione britannica dell'Etiopia e benché la Somalia francese fosse passata a Vichy dopo il crollo della Francia il duca d'Aosta non si fidava della guarnigione francese di Gibuti. La miglior precauzione suggerì a Mussolini sarebbe stata l'occupazione della Somalia britannica.

Tanto la Somalia britannica quanto la Somalia italiana sono regioni desolate, vi sono scarsissime risorse naturali non piove quasi mai. A circa 80 km all'interno, verso la frontiera etiopica e parallela alla costa corre un'alta catena di montagne laviche alte sui 2.000 metri che un invasore proveniente dall'Etiopia deve necessariamente attraversare. Quindi, era la zona ideale per bloccare il nemico, o qui o non è più possibile fermarlo, non essendovi altre posizioni difensive. La prima valutazione britannica era che non fosse possibile difendere la Somalia il che equivaleva a offrire agli Italiani la costa lungo il golfo di Aden. Il generale Wavell decise che bisognava fare uno sforzo per tenerla. Occorreva un minimo di cinque battaglioni ma al momento dell'inizio dell'invasione italiana il 3 agosto 1940, il comandante della colonia brigadiere A R Chater disponeva soltanto del I battaglione del reggimento della Rhodesia del Nord del II battaglione fucilieri reali africani e di due compagnie del reggimento Punjab del piccolo Camel Corps somalo e di una batteria con quattro obici da 94 mm. Contro queste forze il generale Nasi comandante italiano nell'Etiopia sud orientale disponeva di 26 battaglioni, ciascuno con la propria artiglieria, cinque bande al comando di ufficiali italiani quattro batterie da campagna, carri leggeri e medi e autoblindo. Inoltre le forze britanniche non avevano avuto tempo di costruire difese che servissero da copertura ai pochi passi attraverso la catena montagnosa. Il più importante di tali passi per il quale passava la sola strada per Berbera corrispondeva ad un'ampia apertura della catena stessa ed era chiamato Tug Argan.

Dopo aver attraversato la frontiera completamente aperta il 3 agosto le forze italiane si frazionarono. Una colonna si diresse verso la frontiera della Somalia francese: ed entro due giorni essa aveva raggiunto il suo obiettivo che era quello di bloccare la guarnigione francese nel caso questa fosse disposta a intervenire in appoggio agli inglesi. Sul resto delle forze al comando del maggior generale de Simone, si appuntò immediatamente l'attenzione del Camel Corps somalo. Pur costretto a ripiegare continuamente il Camel Corps impiegò ogni possibile forma di disturbo ritardando seriamente l'avanzata degli italiani. Di conseguenza, il generale de Simone impiegò due giorni per raggiungere Hargeisa. Sopravvalutando la forza del Camel Corps invece di buttarsi subito su Tug Argan, perse tre giorni a trasformare Hargeisa in una base atta a sostenere i seri combattimenti che si attendeva.

Il generale de Simone riprese la sua marcia l'8 agosto e raggiunse Tug Argan l'11 ma l'indugio di Hargeisa era stato di grande importanza per I difensori britannici: aveva dato tempo al battaglione Black Watch di arrivare e aveva inoltre consentito al generale Wavell di assegnare un comandante alle forze di difesa, il maggior generale A R Godwin Austen, arrivato proprio quando l'invasore raggiungeva Tug Argan. Qui la strada piena di curve era dominata da sei alture lontane da un chilometro e mezzo a due, e occupate da forze britanniche. Gli italiani misero in atto un pesante sbarramento di artiglieria e quindi si lanciarono con forze che assommavano a una brigata contro un'altura tenuta da una compagnia del III battaglione del 15º reggimento Punjab. Presero l'altura e la conservarono malgrado due decisi contrattacchi degli indiani. Altre due alture furono assaltate ma i difensori, nettamente inferiori nel numero, tennero duro ed inflissero gravi perdite agli italiani che in quel giorno non fecero altri progressi. Il giorno successivo furono attaccate tutte le posizioni difensive e tutte, meno una resistettero. Mentre le forze britanniche erano impegnate al completo, gli italiani disponevano di ampie riserve, con cui riuscirono gradatamente a salire sulla destra e cominciarono ad avanzare sul fianco est delle alture difese. Il 13 agosto i combattimenti continuarono ancora per tutta la giornata senza che nessuno dei difensori cedesse terreno. Dopo però che falli un tentativo di bloccare le infiltrazioni nemiche, le truppe britanniche cominciarono a rendersi conto che stavano per essere circondate e correvano pericolo di essere tagliate fuori dall'unica loro linea di ritirata.

Il 14 agosto quarto giorno di battaglia, i difensori resistevano ancora ma la minaccia di essere tagliati fuori da un momento all'altro si faceva sempre più evidente, il generale Godwin Austen, allora telegrafò al Cairo affermando che, in assenza di ogni altra posizione atta alla difesa, l'unico modo per salvare le sue forze era evacuare la Somalia. Il Cairo approvò, Godwin Austen resistette ancora un giorno contro attacchi continui ma la notte del 15 cominciò a ritirarsi verso una posizione predisposta alcune miglia più indietro dove il Black Watch rinforzati da una compagnia della Rhodesia del Nord e da una del Punjab doveva condurre azioni di retroguardia. C'è da dire che il Black Watch contrattaccò due volte con tanta violenza che gli italiani furono costretti a fermarsi, il che concesse al generale Godwin Austen il tempo per imbarcare le sue forze su una nave da guerra in attesa a Berbera. Gli italiani raggiunsero Berbera il 1 agosto.

La difesa della Somalia britannica era costata agli inglesi 250 perdite contro le 205 degli italiani. Gli italiani avevano pagato cara la conquista e si resero conto che il prezzo sarebbe stato assai più alto se le forze britanniche avessero disposto un adeguato appoggio d'artiglieria. La maggior parte delle forze evacuate da Berbera andò ad aggiungersi all'organizzazione che gradualmente si andava predisponendo nel Kenya, e la Somalia fu lasciata indisturbata per sette mesi, a parte attacchi aerei occasionali e, in dicembre, un raid dal Kenya guidato dal generale Godwin Austen, ad un posto di frontiera.

Il controattacco Inglese.

Quando fu lanciato il primo attacco contro l'Africa Orientale italiana, nel febbraio 1941, per rimuovere quella che era ancora considerata una minaccia contro il Kenya, esso fu diretto contro la Somalia e fu principalmente opera della 12ª divisione africana del generale Godwin Austen (1ª brigata del Sud Africa, 22ª brigata dell'Africa Orientale e 24a brigata della Costa d'Oro) Un problema difficile era come arrivare alla Somalia. La sola strada transitabile correva attraverso il distretto della frontiera settentrionale del Kenya una regione stepposa, quasi senza strade calda ostile e priva d'acqua tranne che nei mesi delle piogge quando però il suolo si trasformava in un immenso acquitrino e diventava impossibile transitarvi. Dal più vicino capolinea ferroviario c'erano più di 600 km; di lì in poi i rifornimenti dovevano essere trasportati per strade che mettevano a dura prova i non molti automezzi disponibili. In effetti, quella regione rappresentava più un ostacolo di diverse centinaia di chilometriche un conveniente trampolino di lancio. Il generale Cunningham, che aveva assunto il comando nel Kenya in novembre aveva calcolato che nessun attacco sarebbe stato possibile prima di maggio, quando le grandi piogge sarebbero cessate; ma la grande impazienza che regnava a Londra insieme al grande bisogno che si aveva nel Medio Oriente delle truppe che si trovavano in Kenya indussero ad affrettare i tempi. L'offensiva di febbraio non veniva però considerata con molta fiducia. Le forze italiane in Somalia erano assai sopravvalutate. Ci si attendeva una forte resistenza a Chisimaio una importante città portuale nel sud sul fiume Giuba. Se non si riusciva a prendere Chisimaio e ad attraversare il Giuba prima che le forze britanniche avessero consumato buona parte dei rifornimenti non sarebbe stato possibile avanzare verso nord. Si aveva persino l'impressione che fosse necessario ritirarsi, qualora Chisimaio non fosse caduta entro dieci giorni.

Per i primi 150 chilometri ad est attraverso una regione piatta, fino alla città di Afmadu che la 12ª divisione africana doveva attaccare l'11 febbraio non ci si aspettava alcuna resistenza del distretto della frontiera settentrionale. Il 10 febbraio Afmadu fu pesantemente bombardata dall'aviazione sudafricana: l'effetto sul morale della guarnigione italiana fu tale che quando le truppe di testa della 12ª divisione africana cautamente si avvicinarono, scoprirono che gli italiani erano fuggiti. Spostarsi nella Somalia meridionale è altrettanto difficile che nella regione della frontiera settentrionale del Kenya ma le tre brigate della 12ª divisione africana dopo che Afmadu era stata trovata sgombera, procedettero con sorprendente celerità. La 24ª brigata della Costa d'Oro procedette per un centinaio di chilometri verso ovest e il giorno seguente conquistò una posizione difesa sulla riva destra del Giuba vincendo una accanita resistenza prima di lanciarsi per altri 50 km verso nord ad impadronirsi di una seconda posizione sul Giuba.

Il mattino del 14 febbraio i sudafricani presero Gobuin, 130 km a sud est di Afmadu, sulla frontiera del Giuba, appena 15 km a nord di Chisimaio: con ciò veniva sgomberata la via alla 22ª brigata dell'Africa Orientale che prese d'assalto Chisimaio la sera stessa. La resistenza fu trascurabile, essendo gli italiani per la maggior parte in fuga.Il duca d'Aosta sopravvalutando la forza dei britannici come questi avevano sopravvalutato la sua ordinò l'evacuazione di Chisimaio e la distruzione di tutti i magazzini ed installazioni ma la celerità dell'avanzata britannica aveva prevenuto le demolizioni. Gli italiani occupavano ora con forze considerevoli la sponda del Giuba di fronte ai sudafricani a Gobuin. Avevano distrutto il ponte e si erano organizzati a difesa così che ebbero poca difficoltà a bloccare il primo tentativo delle truppe sudafricane di attraversamento del fiume. Per una settimana furono fatti numerosi tentativi poi alcuni battelli d'assalto sudafricani riuscirono ad attraversare 11 km a monte.

Gli italiani contrattaccarono immediatamente ma la testa di ponte resistette mentre dei rinforzi venivano traghettati. Seguirono due giorni di accaniti combattimenti ma il 23 febbraio I sudafricani erano padroni di entrambe le rive su un'ampiezza di 8 miglia. I sudafricani si buttarono immediatamente verso nord e con una puntata di 80 chilometri lungo la riva orientale si riunirono alla brigata della Costa d'Oro che aveva forzato dopo scarsa lotta il passaggio del fiume 130 km più a monte e stava dirigendosi a sud contro Gelib una città situata sulla riva orientale a cavallo della strada principale del nord. Era stato elaborato un piano particolareggiato ma la resistenza italiana inaspettatamente e misteriosamente, crollò quasi subito. Era chiaro ormai che le forze italiane o non volevano combattere o erano incapaci di offrire una consistente resistenza.

Il comandante italiano era lo stesso generale de Simone che aveva combattuto la battaglia di Tug Argan sette mesi prima. Disponeva di due divisioni nella zona ma la sua riluttanza ad impegnarle era uno dei frutti della difesa organizzata a Tug Argan dal generale Godwin Austen che ora lo fronteggiava di nuovo. C'è da notare che i mezzi di trasporto italiani erano molto inferiori alle esigenze e privarono così il generale de Simone di quella mobilità che è fattore essenziale della manovra tattica. La provata abilità delle brigate del generale Godwin Austen a muovere ad alta velocità su un terreno orribile obbligava il generale de Simone ad essere guardingo nei momenti cruciali dell'azione e lo privava di ogni iniziativa. L'aviazione italiana per giunta faceva una meschina figura mentre le truppe britanniche godevano di un eccellente appoggio aereo. In quel momento l'aviazione italiana aveva abbondanza di apparecchi in Africa Orientale e cosi pure di pezzi di ricambio e di carburante: la ragione di questo comportamento non è mai stato spiegato.

Le truppe etiopiche che combattevano con gli italiani si rivelavano assai malfide e tendevano a sparire nella macchia ai primi colpi. Ciò non avrebbe dovuto sorprendere gli italiani che affidarono invece agli etiopi il compito di ritardare e molestare le forze britanniche. Dopo la caduta di Gelib il comando italiano in Somalia si disintegrò e i piani britannici furono sottoposti a revisione.

La mancanza di una seria resistenza italiana aveva colto di sorpresa gli inglesi e indicava che si potevano assumere dei rischi non considerati in precedenza. Inoltre la presa di Chisimaio, da parte dei britannici, senza quasi doverla danneggiare consentiva di portare via mare i rifornimenti cambiando cosi l'intera situazione logistica. Ciò che era cominciato come una puntata limitata per eliminare una possibile minaccia sul Kenya si trasformava ad un tratto in un'operazione offensiva volta a cacciare completamente gli italiani dalla Somalia allo scopo di usufruire di questa regione come base per l'invasione dell'Etiopia da sud est. Il generale Cunningham ordinò quindi che Mogadiscio la capitale con un porto importante e buoni servizi, venisse occupata al più presto possibile. La fresca 23ª brigata della Nigeria (della II divisione africana) che nel frattempo si era trasferita dal Kenya nella zona di Chisimaio venne immediatamente dislocata a Gelib col compito di inseguire gli italiani in ritirata, questi bersagliati dal mare e dal cielo trasformarono la ritirata in una rotta e i nigeriani coprirono i 400 km che li separavano da Mogadiscio in tre giorni. Non fu neppure tentata una qualsiasi difesa di Mogadiscio e il 25 febbraio i primi nigeriani entrarono nella città ove trovarono 1.500.000 litri di benzina e 360.000 litri di carburante per aerei nonché una quantità considerevole di provviste, il porto era stato nemmeno seriamente danneggiato.

Il rastrellamento degli Italiani nell'interno della Somalia venne affidato alla brigata 21ª dell'Africa Orientale e 24ª della Costa d'Oro. Il generale Wavell consentì a liberare il generale Cunningham dal compito di rioccupare la Somalia britannica poiché l'azione verso l'Etiopia non doveva essere rinviata. Due battaglioni della guarnigione di Aden furono successivamente inviati nella Somalia britannica e non trovarono quasi resistenza. La conquista della Somalia aveva richiesto un tempo incredibilmente breve: nel complesso erano stati guadagnati quasi due mesi sulla data che non molto tempo prima era stata considerata come la più opportuna per dare inizio alle operazioni. La valutazione di ciò che era realizzabile nella campagna dell'Africa Orientale poteva pertanto essere massicciamente riveduta. Era stato acquisito un importante dato di esperienza: che la celerità di movimento sconcertava i comandanti italiani. Questa esperienza venne poi ampiamente sfruttata in seguito e servì più di una volta a mandare all'aria i piani degli italiani.