Campagne Nell'Oceano Pacifico

Il Giappone e i piani d'attacco

Per giapponesi le vittorie riportate dai tedeschi nell'Europa occidentale nella primavera del 1940 offrivano un'occasione d'oro. Francia e Olanda, due delle tre potenze coloniali che sbarravano la via alla dominazione giapponese dell'Estremo Oriente, erano state battute. La terza, la Gran Bretagna, era vicina alla sconfitta. Quello era il momento di impadronirsi dei possedimenti di quei tre paesi: Malesia, Birmania, Indocina francese e Indie olandesi. Il possesso di queste colonie avrebbe assicurato ai giapponesi il petrolio, nonché una base dalla quale completare la conquista della Cina. Essi avrebbero in tal modo gettato le fondamenta di quel " nuovo ordine " asiatico, con il quale liberare i popoli dell'Asia dal dominio europeo.

Questo obiettivo a lungo termine stava alla base di tutto il pensiero strategico giapponese. Già dal luglio 1937 gli eserciti giapponesi stavano combattendo in Cina, e i successi riportati erano piuttosto scarsi. Gli Stati Uniti aiutavano Chiang Kai Shek in misura sufficiente a mantenere viva la resistenza cinese, e nello stesso tempo potevano in ogni momento esercitare un'intollerabile pressione economica sui giapponesi interrompendo il flusso di rifornimento del petrolio.

Nel 1940 i giapponesi si trovarono di fronte alla necessità di rischiare il tutto per tutto. Accelerando il loro sforzo militare in Cina, correvano il rischio che gli Stati Uniti imponessero un embargo totale sul petrolio. Ciò avrebbe costretto il Giappone ad impadronirsi dei giacimenti petroliferi delle Indie olandesi. Se, invece, i giapponesi avessero deciso di organizzare un attacco su grande scala contro la Cina, avrebbero prima dovuto bombardare le sue vie di rifornimento, il che significava impadronirsi delle basi aeree dell'Indocina francese.

Un attacco di questo genere, contro le colonie francesi e olandesi, avrebbe comportato il grave rischio di un intervento diretto degli Stati Uniti nella guerra tra Cina e Giappone. Per i giapponesi si trattava dunque di scegliere, tra un prolungato impegno militare in Cina o nell'impresa di impadronirsi di tutto l'Estremo Oriente anche se ciò avrebbe significato una guerra con l'America.

Data la situazione politica giapponese del 1940, il fatto che l'occasione fosse sfruttata non era molto sorprendente. Nell'arco degli anni trenta, alcuni ufficiali dell'esercito, si erano assicurati una tale influenza sui politici giapponesi da poter scegliere il loro ministro della guerra. Il 16 luglio 1940 l'esercito abbatté il governo del moderato ammiraglio Yonai, al cui posto fu collocato il principe Konoye.

Il 27 luglio segnò un ulteriore passo sulla strada dell'aggressione, la conferenza di collegamento, un organismo molto attivo in campo politico, composto da ufficiali dell'esercito e della marina, nonché da alcuni.uomini politici proclamò l'esistenza di una " sfera di coprosperità della grande Asia orientale ", della quale il Giappone intendeva assumere il controllo. Questa " sfera di coprosperità ", che abbondava di materie prime d'importanza vitale come il petrolio, si estendeva fino a comprendere le Indie olandesi, la Malesia, la Thailandia, la Birmania e le Filippine.

Come primo passo, si decise di esercitare una pressione diplomatica specialmente nei riguardi degli olandesi volta ad assicurare al Giappone il controllo di quei territori. Ma, rendendosi conto di quanto sarebbe stata probabile una guerra con Gran Bretagna e America, i promotori dell'iniziativa, sottolinearono la necessità di prendere immediatamente adeguate misure per riorganizzare l'economia giapponese e prepararla ad affrontare una guerra.

Le prime mosse sul fronte diplomatico furono incoraggianti. Il 29 agosto i francesi accettarono la richiesta giapponese di dislocare nell'Indocina settentrionale truppe e gruppi aerei. Gli inglesi, d'altra parte, sotto l'energica pressione giapponese non ebbero altra alternativa, che quella di chiudere la strada della Birmania e di ritirare le loro guarnigioni da Sciangai e da Tientsin.

Per quanto riguardava la minaccia costituita dagli Stati Uniti, il ministro degli esteri giapponese, Matsuoka, riteneva che essa potesse essere neutralizzata allineando il Giappone con Germania e Italia. Il 27 settembre 1940 fu firmato il patto tripartito, diretto contro eventuali aggressioni da parte di potenze non ancora impegnate nella guerra europea o cinese.

Ma i successi diplomatici giapponesi si fermarono qui. L'Olanda, incoraggiata dagli Stati Uniti, rifiutò di piegarsi alle richieste giapponesi di massicce forniture di petrolio sulla base di un contratto a lunga scadenza. Il 18 ottobre gli inglesi riaprirono la strada della Birmania, e alla fine del mese avviarono con olandesi e australiani conversazioni militari concernenti la mutua difesa dei tre paesi. In dicembre gli americani promisero alla Cina un prestito di 100 milioni di dollari e una forza aerea composta da volontari; in gennaio, poi, anch'essi cominciarono a prendere parte alle conversazioni e ai preparativi difensivi avviati da inglesi, olandesi e australiani. Ma la cosa più grave fu che il patto tripartito non ebbe lo sperato effetto deterrente sugli Stati Uniti, anzi rafforzò negli americani la decisione di resistere a tutti gli sforzi dei giapponesi per strappare concessioni mediante negoziati.

La linea politica preferita dai giapponesi continuava a essere quella dell'espansione attraverso la diplomazia, soprattutto perché i preparativi militari per una guerra con le potenze occidentali erano ancora del tutto inadeguati. Solo nell'autunno del 1940 furono avviati alcuni studi preliminari, ma anche dopo la messa a punto di questi studi sai ebbe dovuto trascorrere un certo tempo, prima che il Giappone fosse pronto, sia sul piano economico sia su quello militare, per una guerra su vasta scala.

Il governo giapponese tentò quindi di convincere i francesi a consentire la dislocazione di basi aeree e navali giapponesi nell'Indocina meridionale, in aggiunta a quelle già in fase di allestimento nell'Indocina settentrionale. Nello stesso tempo fu inviato a Washington un nuovo ambasciatore, Nomura; egli avrebbe dovuto tentare di risolvere le divergenze esistenti tra Giappone e Stati Uniti mediante negoziati diretti con il segretario di stato Cordell Hull.

Le sue proposte, presentate l'11 maggio 1941, chiedevano agli Stati Uniti di interrompere la concessione di aiuti alla Cina e di riprendere i normali scambi commerciali con il Giappone. Queste prime proposte furono giudicate inaccettabili da parte americana, ma i negoziati proseguirono il Giappone non era ancora pronto per la guerra, e Cordell Hull non era disposto a fornire ai giapponesi alcun arpiglio.

Più fruttuoso fu il tentativo di Matsuoka di tenere la Russia al di fuori di un possibile conflitto nippo americano. Il 13 aprile 1941 egli firmò con i russi un patto di non aggressione. Ma l'effetto di questo patto fu annullato dall'improvviso attacco che il 22 giugno la Germania sferrò contro la Russia. Questo elemento nuovo offrì alla conferenza di collegamento una possibilità molto allettante. Matsuoka, sollecitò un attacco contro il tradizionale nemico russo in flagrante violazione del patto di non aggressione che egli stesso aveva appena firmato, spalleggiato da attacchi contro Singapore e ulteriori offensive su grande scala contro Chiang Kai shek.

Gli ambienti militari erano però favorevoli a un'offensiva verso sud, dato che l'attacco di Hitler aveva allontanato il pericolo che la Russia potesse colpire il Giappone alle spalle. D'altra parte, il primo ministro Konoye e il capo di stato maggiore della marina, ammiraglio Nagano, temevano la reazione americana qualora il Giappone avesse invaso il settore meridionale.

Il 22 luglio 1941 fu infine raggiunto un compromesso: alla presenza dell'imperatore, la conferenza di collegamento decise di rafforzare l'esercito in Manciuria e di occupare alcune basi nell'Indocina meridionale come mossa preliminare a un'avanzata nel settore meridionale. Un'eventuale guerra con Gran Bretagna e Stati Uniti d'America non sarebbe stata " rifiutata ", anche se sul piano diplomatico si sarebbe fatto ogni sforzo per evitarla.

E proprio nel tentativo di fare una mossa conciliante verso gli Stati Uniti il 18 luglio Matsuoka fu sostituito dal meno bellicoso ammiraglio Toyoda. Ma l'effetto conciliante della nomina di Toyoda fu annullato da un u1timatum giapponese ai francesi richiedente basi aeree, terrestri e navali nell'Indocina meridionale basi che avrebbero collocato Singapore entro il raggio d'azione dei bombardieri giapponesi.

Da molti mesi gli strateghi americani stavano discutendo sulla politica da adottare verso il Giappone. Una corrente sosteneva che il Giappone fosse deciso all'aggressione, e che quanto prima gli Stati Uniti gli avessero imposto sanzioni economiche, tanto meglio sarebbe stato. Opposta a questa era la tesi secondo cui i Giapponesi erano ancora incerti: le sanzioni li avrebbero definitivamente sospinti verso una politica di aggressione. Questo nuovo ultimatum alla Francia sembrò por fine a ogni dubbio.

Il 24 luglio i francesi accettarono le richieste del Giappone. Il 26 luglio il presidente Roosevelt reagì congelando tutti i beni giapponesi negli Stati Uniti. Gran Bretagna e Olanda si affrettarono a seguire l'esempio degli Stati Uniti. Il Giappone si trovò così a dover fronteggiare un completo arresto di tutte le importazioni di petrolio e di molte altre indispensabili materie prime. Se gli Stati Uniti avessero assunto un atteggiamento meno intransigente, il Giappone non avrebbe avuto altra alternativa che quella di impadronirsi con la forza del settore meridionale. Le scorte di petrolio di cui i giapponesi disponevano erano infatti del tutto inadeguate a sostenere una guerra di vaste proporzioni. Dal livello massimo di 83 milioni di ettolitri del 1939 esse si erano ridotte a 65 milioni di ettolitri verso la metà del 1941: se il Giappone fosse entrato in guerra contro Gran Bretagna e Stati Uniti, scorte di questa entità si sarebbero esaurite in meno di un anno e mezzo. Neppure la guerra con la Cina avrebbe potuto essere conclusa prima dell'esaurimento delle scorte

Il Giappone importava circa il 90% del suo fabbisogno di petrolio dall'America e dalle Indie olandesi; il congelamento dei beni giapponesi minacciava ora di arrestare questo flusso vitale. Anche la produzione interna era diminuita da quando, nel 1939, gli Stati Uniti avevano sospeso ogni genere di assistenza tecnica.

L'imperatore fu messo al corrente della situazione in cui il Giappone era venuto a trovarsi. Mentre verso la metà del 1940 i giapponesi avevano ancora la possibilità di decidere in un senso o nell'altro quanto al tentare di assicurarsi il dominio dell'Estremo Oriente, ora. nel luglio del 1941, in pratica essi non avevano più alcuna possibilità di scelta. Se voleva continuare a esistere come potenza di primo piano, il Giappone doveva assolutamente procurarsi adeguate forniture di petrolio. Se intendeva evitare che la sua posizione sulla scena mondiale fosse stabilita dagli Stati Uniti, il Giappone doveva impadronirsi con la forza del settore meridionale.

In Giappone, seri preparativi per una guerra su vasta scala non erano iniziati fino all'autunno del 1940. Entro la fine di quell'anno era stato avviato uno speciale tipo di addestramento tropicale in preparazione, a un'invasione del settore meridionale. Entro il luglio del 1941 fu poi messo a punto uno schema completo sul quale basare un piano operativo di invasione. La decisione americana di congelare i beni giapponesi rese indispensabile modificare questi piani in modo che uno solo fosse l'obiettivo primario: il petrolio.

Impadronirsi dei campi petroliferi non sarebbe stato sufficiente: il petrolio doveva poter essere trasportato senza rischi in Giappone. Per conquistare Sumatra, Borneo e Giava la cui produzione di petrolio superava i 106 milioni di ettolitri all'anno nonché le colonie inglesi e americane che fiancheggiavano la rotta che univa queste isole al Giappone, i giapponesi avrebbero dovuto impegnare quasi tutte le risorse della marina da guerra e dell'aviazione, oltre a 15 divisioni dell'esercito. Gli strateghi della marina valutarono che l'operazione avrebbe richiesto meno di sei mesi.

Gli strateghi dell'esercito giunsero alle loro conclusioni il 9 agosto, non esisteva altra alternativa che quella di impadronirsi dei giacimenti petroliferi del settore meridionale. L'operazione doveva essere organizzata prima della fine del 1941. Entro il 1942 le scorte di petrolio sarebbero scese a un livello troppo basso. L'atteggiamento dei capi supremi di ambedue le forze armate verso i negoziati con gli Stati Uniti era chiaro. Se il Giappone avesse potuto ottenere tutto ciò di cui aveva bisogno mediante un accordo pacifico, i negoziati avrebbero dovuto continuare. Ma non appena fosse apparso chiaro che gli Stati Uniti stavano soltanto guadagnando tempo, i negoziati avrebbero dovuto essere interrotti. Nel tentativo di liberarsi degli estremisti militari, il 28 agosto Konoye chiese di incontrarsi personalmente con Roosevelt, sperando di convincere l'imperatore ad approvare un accordo pacifico prima che l'esercito potesse mettere a punto una soluzione secondo i suoi intendimenti. Ma Cordell Hull consigliò Roosevelt di respingere la richiesta, spiegando che Konoye era politicamente troppo debole per far rispettare in Giappone i termini di un accordo, anche ammesso che fosse possibile giungere a un accordo.

Quando, il 3 settembre, giunse la risposta negativa di Roosevelt, la conferenza di collegamento aveva già prestabilito una rigida tabella di marcia per eventuali negoziati: la decisione di muovere o no guerra agli Stati Uniti doveva essere presa entro la metà di ottobre. Il 5 settembre, nel corso di una riunione, i capi di stato maggiore tentarono di convincere l'imperatore che solo un'azione drastica avrebbe ormai potuto riscattare le sorti del Giappone. L'imperatore, riluttante ad ampliare la guerra, espresse i suoi dubbi sul fatto che il Giappone potesse riuscire a conquistare il settore meridionale, e ricordò ai suoi consiglieri militari che il paese non era riuscito a sconfiggere la Cina entro le scadenze previste.

A Konoye fu consentito di tentare di raggiungere un accordo, prima della scadenza, ed egli si rese conto immediatamente che qualsiasi negoziato con gli Stati Uniti sarebbe stato inutile se il Giappone non avesse dato almeno qualche segno di essere disposto a porre fine alla guerra in Cina. Ma il ministro della guerra, generale Hideki Tojo, non era disposto a gettare i frutti di quattro anni di lotta in Cina. Egli fece rilevare che in quel momento, una ritirata si sarebbe gravemente ripercossa sul morale dell'esercito e avrebbe incoraggiato gli americani a chiedere altre concessioni.

Il 14 ottobre Konoye chiese per l'ultima volta a Tojo di approvare una ritirata. Ma Tojo fu inflessibile, insistendo sul fatto che se Konoye non era in grado di prendere una decisione in merito alla guerra, doveva dimettersi. Due giorni dopo Konoye rassegnò le dimissioni. Il 17 ottobre egli fu sostituito da Tojo.

Eppure, neanche Tojo era senz'altro pronto a prendere la decisione fatale. Per più di quindici giorni egli tenne riunita quasi ininterrottamente la conferenza di collegamento, passando in rassegna ancora una volta tutti gli aspetti della politica giapponese. Il 5 novembre, nel corso di una riunione della conferenza di collegamento che si svolgeva alla presenza dell'imperatore, si verificò un'altra crisi. Gli uomini politici più anziani sostenevano energicamente la necessità di negoziare con gli Stati Uniti. L'esercito voleva la guerra. E, ancora una volta, la decisione fu rinviata: Tojo prorogò la scadenza ultima per un accordo al 25 novembre. Ma i preparativi per la guerra, stavano ormai i aggiungendo una fase così avanzata che ben presto sarebbe stato impossibile mantenere aperte ambedue le alternative.

La carenza di petrolio rendeva indispensabile iniziare le operazioni entro il dicembre del 1941 e imponeva inoltre ai giapponesi una ben precisa strategia. I campi petroliferi del settore meridionale dovevano essere catturati intatti, e il petrolio insieme con altre materie prime come gomma, stagno e bauxite doveva poter essere trasportato senza incidenti in Giappone. A minacciare le linee di comunicazione giapponesi vi erano però la base inglese di Singapore, all'estremità meridionale della penisola della Malacca, e le basi americane nelle Filippine, ormai in fase di rapida costruzione e potenziamento.

Nell'autunno del 1941 l'esercito e la marina giapponesi presero in esame quattro modi alternativi per neutralizzare questa duplice minaccia. Il primo era quello di impadronirsi delle isole produttrici di petrolio, e attaccare poi la Malesia e le Filippine; ma in tal modo americani e inglesi avrebbero avuto troppo tempo per preparare le loro difese. Il secondo prevedeva una sequenza di attacchi: contro le Filippine, poi contro le isole produttrici di petrolio, e infine contro la Malesia, ma anche questo secondo criterio assicurava agli inglesi tempo più che sufficiente per prendere adeguate contromisure. In modo analogo, la terza alternativa un'avanzata in senso inverso avrebbe lasciato all'ultimo posto la Pacific Fleet e le basi di bombardieri dell'isola di Luzon, esponendo quindi agli attacchi nemici tutte le linee di comunicazione giapponesi.

Verso la metà di agosto l'esercito e la marina decisero quindi di scegliere la quarta alternativa: un improvviso attacco coordinato contro le Filippine e la Malesia, seguito, una volta conquistati gli obiettivi più importanti, da successivi attacchi contro le Indie olandesi e la Birmania. In questo modo si sarebbero eliminate tutte le minacce potenziali prima di conquistare il Borneo, Giava e Sumatra, le isole produttrici di petrolio.

Nel frattempo un perfezionamento di questa azione strategica di base era elaborato autonomamente dallo stato maggiore della flotta, sotto la guida del suo comandante in capo, ammiraglio Yamamoto. L'idea era quella di prevenire, in misura ancora più decisiva, l'intervento americano nella guerra attaccando la base dell'American Pacific Fleet a Pearl Harbor, nell'isola hawaiana di Oahu, distante 3.400 miglia dal Giappone.

Per ironia della sorte, lo stato maggiore di Yamamoto era incoraggiato nel suo lavoro di elaborazione del piano dall'exploit dell'ammiraglio americano Yarnell, il quale nel 1932 aveva lanciato un analogo attacco simulato nel corso di un'esercitazione di squadra navale. Un'altra indiretta conferma della validità dell'idea era stata fornita dagli inglesi, il cui attacco basato sull'impiego delle portaerei contro la squadra italiana a Taranto, nel novembre 1940, aveva convinto i giapponesi che i siluri potevano essere efficacemente utilizzati anche in acque poco profonde come quelle di Pearl Harbor, con fondali di circa 12 metri. Dal dicembre del 1940 lo stato maggiore di Yamamoto stava dunque lavorando, nella più assoluta segretezza, all'elaborazione di un piano.

Alla fine di agosto il piano di Pearl Harbor fu reso noto allo stato maggiore generale della marina. Esso incontrò una violenta opposizione, in particolare da parte del capo dello stato maggiore della marina, ammiraglio Nagano, che lo giudicò tanto arrischiato quanto inutile. Egli sostenne che, se avesse osato entrare nelle acque territoriali giapponesi, la flotta americana avrebbe potuto essere prima indebolita da forze leggere e quindi distrutta in una battaglia su grande scala. All'inizio di settembre il piano fu provato nel corso di un'esercitazione e si guadagnò un altro avversario: il comandante delle portaerei, ammiraglio Nagumo, il quale giunse alla conclusione che l'operazione gli sarebbe costata due delle sue sei portaerei.

Nonostante l'opposizione incontrata, Yamamoto continuò a patrocinare il suo piano, rifiutandosi di assicurare un'adeguata protezione alle operazioni nel settore meridionale se esso non fosse stato applicato. Egli riteneva che la sola speranza del Giappone fosse quella di assicurarsi un rapido successo, e tentare poi di avviare negoziati con gli Stati Uniti. Yamamoto dovette ricorrere alla minaccia di dimettersi per indurre Nagano ad accettare la sua strategia: colpire la flotta americana prima che potesse interferire nelle operazioni del settore meridionale.

Il 3 novembre il piano fu approvato. Esso prevedeva l'avvicinamento attraverso il Pacifico settentrionale per mascherare il movimento fino a un punto di lancio a nord di Oahu: da qui, gli aerei giapponesi si sarebbero levati in volo per attaccare Pearl Harbor. Non si sarebbe fatto alcun tentativo di sbarcare truppe a Oahu: i giapponesi non potevano sottrarre un numero di navi sufficiente per un'operazione di questo genere, né potevano rischiare di perdere il vantaggio della sorpresa che uno sbarco avrebbe comportato.

Se il basso livello delle scorte di petrolio restringeva lo spazio di manovra del Giappone al massimo fino al dicembre 1941, l'adozione del piano " Pearl Harbor " riduceva ancora di più questo spazio. Condizioni atmosferiche favorevoli potevano essere previste soltanto per la prima decade di dicembre qando la debolezza dei venti avrebbe anche favorito l'operazione " Malesia " e un giorno in particolare era considerato il più adatto, l'8 dicembre, in corrispondenza del quale la fase lunare sarebbe stata più favorevole per l'avvicinamento finale a Pearl Harbor.

Il Giappone presentò a Hull due proposte. La prima, presentata il 7 novembre, in termini alquanto duri, e comportava l'occupazione giapponese di almeno una parte della Cina fino al 1966. Essa non ebbe alcuna risposta. La seconda, più moderata, presentata il 20 novembre, il Giappone s'impegnava a non occupare le isole produttrici di petrolio se gli Stati Uniti non avessero interferito nella conclusione della guerra cinese e si fossero impegnati a fornire il petrolio al Giappone fino a che quest'ultimo non fosse riuscito a procurarsene in quantità sufficienti dalle Indie olandesi. Per parte sua il Giappone prometteva una graduale ritirata delle sue truppe dall'Indocina.

Dopo aver studiato per alcuni giorni questa proposta, il 26 novembre Cordell Hull inviò una ferma replica con la quale chiedeva il ritiro delle truppe giapponesi dalla Cina. Da questo momento, le trattative furono virtualmente interrotte. Il Giappone stava ormai concentrando i suoi sforzi diplomatici nel tentativo di assicurarsi, per iscritto, il promesso appoggio di Germania e Italia nel caso di una guerra con Gran Bretagna o Stati Uniti.

Il 27 novembre Konoye e altri anziani uomini di stato sollecitarono la conferenza di collegamento ad approvare l'avvio d'ulteriori trattative. Ma il 29 novembre la conferenza di collegamento decise per la guerra, e il 1, dicembre una riunione formale alla presenza dell'imperatore confermò questa decisione. Il giorno seguente le forze armate ricevettero l'ordine di prepararsi ad entrare in guerra l'8 dicembre.

Gli ordini d'operazione erano stati impartiti già il 5 novembre e prevedevano tre distinte fasi:

• la prima comprendeva l'attacco contro Pearl Harbor e le operazioni per conquistare il settore meridionale, si doveva formare un perimetro difensivo che, partendo dalle isole Curili e toccando Wake, le isole Marshall e Gilbert, le Bismarck e la Nuova Guinea, giungesse sino a Timor, Giava, Sumatra e Borneo,

• successivamente, si sarebbe consolidato questo perimetro difensivo e si sarebbero sfruttate le risorse in esso racchiuse;

• Infine, si sarebbero respinti i tentativi nemici di forzare il perimetro difensivo.

In breve, i giapponesi speravano di impadronirsi delle risorse del settore meridionale, di trincerarsi all'interno di esso e infine di costringere Gran Bretagna e Stati Uniti ad accettare una pace di compromesso.

L'attacco era previsto per le ore 8 del 7 dicembre a Oahu, quando sarebbero state le 13.30 a Washington, le 18.30 a Londra e le 3.30 dell'8 dicembre a Tokyo.

Per essere più precisi, il tentativo giapponese di assicurarsi il dominio dell'Estremo Oriente sarebbe iniziato dalle ore 2.15 dell'8 dicembre (ora di Tokyo), quando truppe giapponesi sarebbero sbarcate stilla costa nord orientale della Malesia, a Kota Bharu, con il compito di impadronirsi del vicino campo di aviazione inglese. Poi, alle ore 3.25 (7.55 del 7 dicembre, ora locale), gli aerei delle portaerei giapponesi avrebbero iniziato il loro attacco sulle acque di Pearl Harbor. Alle ore 4 sarebbero iniziati gli sbarchi a Singora e Pattani, sull'istmo di Kra, in Thailandia. Questi porti sarebbero poi diventati le principali basi di rifornimento per la campagna in Malesia.

A partire da questo momento, lo sviluppo delle operazioni sarebbe dipeso dal successo degli attacchi iniziali. Se l'operazione di Pearl Harbor, fosse stata giudicata riuscita, alle ore 5.30 (6.30 a Manila) gli aerei giapponesi si sarebbero levati in volo dai loro campi di aviazione di Formosa per tentare di distruggere le forze aeree americane di base nelle Filippine prima che iniziassero gli sbarchi di truppe giapponesi sull'isola di Luzon. Analogamente, se gli attacchi iniziali in Malesia avessero avuto esito positivo, alle ore 8.30 (8 ora locale) avrebbe avuto inizio l'invasione dei territori di Hong Kong ceduti in affitto agli inglesi. Sarebbero poi seguite limitate azioni per occupare Guam, Wake e le isole Gilbert.

L'aspetto principale di tutte queste operazioni, era di assicurarsi un'immediata superiorità aerea distruggendo gli aerei nemici a terra o occupando i campi di aviazione. A tal fine, sarebbe stato necessario basarsi sulla sorpresa; difficoltà particolari erano previste nelle Filippine, dove, sorgendo il sole cinque ore e mezzo più tardi che a Oahu, gli americani sarebbero stati messi in allarme dall'attacco di Pearl Harbor, avendo quindi il tempo di prepararsi e reagire.

Se gli attacchi iniziali fossero riusciti a neutralizzare il potenziale aereo e navale del nemico, si sarebbero occupate le basi necessarie per sostenere l'ulteriore sviluppo delle operazioni. I giapponesi pensavano che la resistenza non sarebbe durata a lungo: a loro avviso, Manila sarebbe dovuto cadere in 50 giorni, Singapore in 100 e le Indie olandesi in 150.

La divisione dei compiti per lo svolgimento di queste operazioni era stata chiaramente definita. Le operazioni nel settore meridionale erano affidate alle unità comandate dal conte Terauchi. La 14ª armata, al comando del tenente generale Homma, doveva occupare le Filippine. Essa era formata da due divisioni (la 16ª e la 48ª), dalla 65ª brigata autonoma e dal 56º raggruppamento, e aveva l'appoggio aereo della 5ª squadra aerea dell'aviazione dell'esercito.

La 15ª armata del tenente generale Iida, formata dalla 33ª divisione e da quasi tutta la 55ª, doveva invadere la Birmania e la Thailandia. Con un'operazione alla quale era stata assegnata priorità assoluta così come all'attacco contro Pearl Harbor, la 25ª armata del generale Yamashita tre buone divisioni: la 5ª, la 18ª e le Guardie Imperiali doveva occuparsi della Malesia. Hong Kong era assegnata alla 38ª divisione (che dipendeva dal comando competente per la Cina), mentre le operazioni concernenti le isole del Pacifico dovevano essere condotte da truppe della marina e dalla restante parte della 55ª divisione. Le operazioni in Malesia sarebbero state appoggiate dal cielo da 350 / 450 aerei dell'esercito, mentre la 56ª divisione sarebbe rimasta di riserva.

Le divisioni giapponesi erano alquanto diverse tra loro per dimensioni e composizione, in quanto l'esercito stava attraversando una fase di riorganizzazione: le vecchie formazioni di 12 battaglioni con più di 20.000 uomini e basate sul traino animale erano sostituite da divisioni più compatte di 9 battaglioni per un totale di12.000 15.000 uomini, dotate di mezzi di trasporto motorizzati. L'armamento della fanteria e in particolar modo i mortai, era buono.

Le unità dell'esercito meridionale erano appoggiate da un limitato numero di carri armati leggeri e medi, da 700 aerei dell'esercito e da 480 aerei della marina di base a terra, dotati d'eccezionale autonomia e guidati da piloti esperti. I caccia A6M (Zero) erano i migliori aerei da combattimento presenti nel teatro del Pacifico. Essi erano in grado di scortare i bombardieri bimotori G3M e G4M lungo l'intero volo da Formosa a Manila e ritorno (1.450 km); senza scorta questi bombardieri potevano raggiungere Singapore dai campi d'aviazione situati nell'Indocina meridionale, ad una distanza di circa 1.100 km. Circa un centinaio di G3M raggiunsero questi campi d'aviazione verso la fine di ottobre, e all'inizio di dicembre, si unirono a essi 27 dei più pesanti G4M i quali avevano ricevuto l'esplicito ordine di attaccare e affondare le due unità inglesi Prince of Wales e Repulse, arrivate a Singapore il 2 dicembre.

La marina era organizzata in gruppi ripartiti per compito. Yamamoto comandava il " corpo principale " della flotta unita, comprendente due corazzate con cannoni da 406 mm e 4 corazzate con cannoni da 356 mm alle quali si sarebbe ben presto aggiunta la Yamato che, con i suoi cannoni da 460 mm. era la più potente corazzata del mondo.

La formazione d'assalto di portaerei che doveva attaccare Pearl Harbor era al comando dell'ammiraglio Nagumo. Essa era scortata da due corazzate, due incrociatori pesanti, un incrociatore leggero, 16 cacciatorpediniere e 3 sommergibili. Le sei portaerei, costituite da tre coppie uguali, erano l'Akagi e la Kaga, la Hiryu e la Soryu, e la Shokaku e Zuikaku. Tutte, a eccezione della Kaga, avevano una velocità massima superiore ai 30 nodi, e trasportavano da 63 a 75 aerei ciascuna, in totale 423. I giapponesi avevano inoltre altre quattro portaerei più piccole, delle quali due erano adibite all'addestramento e due assegnate alle operazioni nel settore meridionale, al quale erano state assegnate, per proteggere i convogli di truppe, due corazzate con cannoni da 356 mm, 11 incrociatori con cannoni da 203 mm, 7 incrociatori leggeri, 40 cacciatorpediniere e 18 sommergibili).

All'inizio del dicembre 1941 scattarono le operazioni del settore meridionale. Il 4 dicembre, alle ore 5.30, 19 navi da trasporto con a bordo 26.000 uomini lasciarono l'isola di Hainan dirette ai previsti punti di sbarco di Singora, Pattani e Kota Bharu, sulle coste della Thailandia e della Malesia. Il giorno seguente partirono altre 7 navi da trasporto dirette verso la costa tailandese, mentre la divisione delle Guardie Imperiali si apprestava ad avanzare dall'Indocina verso la Thailandia e la Malesia per appoggiare gli sbarchi.

A Formosa, piloti e uomini di equipaggio erano pronti a decollare per le Filippine, non appena fosse giunta notizia del felice esito dell'attacco contro Pearl Harbor. A Formosa, a Okinawa e sulle isole Palau, la 14ª armata si teneva pronta a seguire gli attacchi aerei con sbarchi nei punti prestabiliti. In Cina, la 38ª divisione si mise in movimento verso i territori di Hong Kong ceduti in affitto agli inglesi, mentre sulle isole giapponesi del Pacifico altre forze si preparavano ad attaccare Guam, Wake e le isole Gilbert. Il comando dell'esercito meridionale aveva impartito gli ordini preliminari alle sue forze già il 15 novembre; gli ordini definitivi, che designavano l'8 dicembre come " giorno X ", furono impartiti da Tokyo a tutte le forze giapponesi il 2 dicembre.

In quel momento le portaerei di Nagumo erano già in navigazione verso Pearl Harbor. Entro il 22 novembre esse si erano riunite nella baia di Tankan (nelle isole Curili), dove avevano imbarcato in coperta riserve di carburante, nonché speciali siluri muniti di alette stabilizzatrici in legno, appositamente progettati per essere impiegati in acque poco profonde, e bombe perforanti per il bombardamento da alta quota. In novembre, precedendo la formazione di portaerei, era salpata dal Giappone una squadra composta di 27 sommergibili, con il compito di pattugliare l'accesso a Pearl Harbor.

Cinque di questi trasportavano sommergibili tascabili che avrebbero dovuto silurare le navi americane all'ancora. Sommergibili, incrociatori e cacciatorpediniere avevano in dotazione siluri da 610 mm con propulsione a ossigeno liquido.

Il 25 novembre Yamamoto aveva impartito gli ordini esecutivi per l'attacco. La formazione di Nagumo doveva salpare il giorno seguente, effettuare le operazioni di rifornimento il 3 dicembre, attraversare la linea internazionale del cambiamento di data, e infine dirigere verso sud est. Nagumo doveva guardarsi in modo particolare da eventuali sommergibili o aerei nemici, mentre alcuni cacciatorpediniere avrebbero preceduto il grosso della formazione svolgendo un lavoro d'esplorazione, così da poter segnalare l'eventuale avvistamento di navi. Le navi americane, olandesi e inglesi dovevano essere affondate, e quelle di altri paesi, abbordate e catturate in modo da impedire loro di inviare messaggi radio. La formazione avrebbe dovuto mantenere il più rigoroso silenzio radio, mentre le altre unità della flotta, che si trovavano nelle acque territoriali giapponesi avrebbero intensificato lo scambio di messaggi radio in modo da distrarre l'attenzione del nemico.

Se la formazione di Nagumo fosse stata scoperta dagli americani prima del 6 dicembre, l'operazione sarebbe stata sospesa; se ciò fosse avvenuto in una fase successiva, sarebbe toccato allo stesso Nagumo decidere il da farsi. Se poi i negoziati con l'America avessero improvvisamente aperto la possibilità di un accordo soddisfacente, la formazione di Nagumo si sai ebbe fermata in attesa di ordini.

L'attacco doveva essere lanciato in due ondate. La prima ondata di 140 bombardieri, scortati da 50 caccia Zero, doveva partire alle ore 6 (ora locale), 275 miglia a nord di Pearl Harbor. Gli obiettivi erano costituiti da cinque dei sei campi di aviazione (i giapponesi ignoravano l'esistenza del sesto), dalla base per idrovolanti di Kaneohe, dalle corazzate e dalle portaerei americane ormeggiate lungo l'isola Ford, a Pearl Harbor. Se, per un qualsiasi motivo, le unità nemiche non fossero state presenti nel porto, i bombardieri si sarebbero spinti fino a 150 miglia a sud di Oahu per cercarle. Della seconda ondata avrebbero fatto parte 213 aerei, mentre altri 30 avrebbero svolto una attività di ricognizione al di sopra delle unità giapponesi e 40 sarebbero rimasti di riserva. Dopo l'attacco l'intera formazione di Nagumo doveva ritornare immediatamente verso le acque territoriali giapponesi, fermandosi soltanto in un punto prestabilito per rifornirsi di combustibile da alcune navi appoggio.

Mentre la formazione si muoveva verso est a una velocità di 13 nodi, il cielo rimase coperto e il mare burrascoso. Il 4 dicembre le condizioni atmosferiche migliorarono e, effettuate le operazioni di rifornimento, la formazione attraversò la linea internazionale del cambiamento di data per dirigere verso sud est a una velocità di 25 nodi, lasciando indietro le navi appoggio per le operazioni di rifornimento del viaggio di ritorno.

Durante l'avvicinamento al punto di lancio, le unità di Nagumo avvistarono soltanto una nave e anche quella giapponese. Non furono effettuati voli di ricognizione e, ascoltando i messaggi radio americani, i giapponesi si convinsero che nel settore delle Hawaii tutto era tranquillo e che i voli di ricognizione americani effettuati da Oahu erano limitati al settore sud occidentale. Una serie di rapporti trasmessi confermò che nel porto si trovavano otto corazzate americane ma non le portaerei Enterprise e Lexington. L'assenza delle portaerei era un fatto piuttosto grave, ma i giapponesi giunsero alla conclusione che l'affondamento delle corazzate avrebbe comunque costituito un risultato più che sufficiente; inoltre poteva darsi che le portaerei ritornassero a Pearl Harbor da un momento all'altro.

Alle ore 21 del 6 dicembre la formazione di Nagumo si aggiunse il punto in cui doveva accostare verso sud est, più a sud, intanto, i sommergibili tascabili cominciavano a fare il loro ingresso nella rada di Pearl Harbor.

Alle ore 5 del 7 dicembre, furono catapultati dagli incrociatori due idrovolanti per perlustrare le rotte di Pearl Harbor e di Lahaina alla ricerca, che si rivelò infruttuosa, delle portaerei americane. Alle ore 6.15 la prima ondata di aerei attaccanti si mise in formazione e si diresse verso sud.

Solo una piccola cosa avrebbe offuscato il brillante successo dell'operazione. I giapponesi avevano voluto dare al governo americano una specie di preavviso dell'apertura delle ostilità consegnando una nota in 14 parti alle 13, ora di Washington (7.30. ora di Pearl Harbor). Il quattordicesimo paragrafo avrebbe dichiarato che i negoziati erano chiusi, e si pensava che gli americani non avrebbero fatto in tempo a leggerla, e quindi mettere in allarme le loro difese, prima dell'inizio dell'attacco. (13.25, ora di Washington). Nessun tentativo fu fatto per preavvisare gli inglesi.

Questo grottesco tentativo dei giapponesi di rispettare le leggi internazionali fallì, in quanto il personale dell'ambasciata giapponese a Washington non riuscì a dattilografare in tempo la nota in quattordici parti. I decifratori americani furono più rapidi dei giapponesi nel comunicare il contenuto della nota a Cordell Hull e Roosevelt. Quando l'ambasciatore Nomura si recò da Hull, era troppo tardi.